
100 anni di comunismo: sia maledetto

Sia maledetto il comunismo: la più aberrante macchina di atrocità mai congegnata
di Alan Charles Kors, traduzione di Cristian Merlo
L’Olocausto comunista avrebbe dovuto generare una fioritura nell’arte occidentale, e un’esplosione di testimonianze e di coinvolgimento emotivo. Avrebbe dovuto suscitare un oceano traboccante di lacrime. Al suo posto, invece, troviamo solo una landa ghiacciata di indifferenza. I ragazzi che negli anni ‘60 esponevano i ritratti di Mao e del Che sulle loro pareti del college – il che, da un punto di vista morale, è l’equivalente dell’appendere i ritratti di Hitler, Goebbels, o Horst Wessel nella propria stanzetta – ora pontificano ai nostri figli sulla superiorità morale della loro generazione politica. Ogni libro di testo di storia si sofferma sui crimini del nazismo, ne indaga le cause di fondo, ed espone una lezione che deve essere appresa. Tutti hanno contezza del numero di “sei milioni”. Al contrario, si discetta sempre circa gli “errori” del comunismo e dello stalinismo (il termine viene ripetuto sino alla nausea). Se si chiedesse a un liceale quanti furono i morti sotto il regime di Stalin, questi ti risponderebbe, anche adesso, “Migliaia? Decine di migliaia?”
stalinL’obiettivo del socialismo era sostanzialmente quello di raccogliere i frutti culturali, scientifici, creativi, talvolta espressione della comunità, in forza dell’abolizione della proprietà privata e del libero mercato, ponendo così fine alla tirannia dell’uomo sull’uomo. Avvalendosi delle leve dello Stato come strumento di dominio, il comunismo ha cercato di realizzare l’utopia socialista. Ma i risultati pratici si sono tradotti nell’ascesa al potere da parte di un gruppo di tiranni sociopatici: Lenin, Stalin, Mao Tse-tung, Kim Il Sung, Ho Chi Minh, Pol Pot, Castro, Mengistu, Ceausescu, Hoxha, per non parlare di altri.
Siamo ora invitati a discutere del lascito di questi tiranni, delle lezioni che possiamo trarne, nonché del mondo che potrebbe emergere una volta che non si riponesse più fede nel comunismo. C’è un problema, però: quello dei cadaveri.
Siamo attorniati da una caterva di innocenti trucidati, e la scala del fenomeno è del tutto nuova.
Non è comparabile con quelle delle migliaia di persone assassinate durante l’Inquisizione; e nemmeno con quella delle migliaia trucidate nel corso del linciaggio americano. Ma la comparazione non può essere fatta nemmeno con i sei milioni di individui sterminati dalla follia nazista. Gli studiosi più accreditati parlano di cifre che la mente fa addirittura fatica a comprendere: tot, tot, tot e ancora tot milioni di corpi affastellati l’uno sull’altro.
È tutto intorno a noi. Se contiamo anche coloro che sono morti di fame durante gli esperimenti comunisti nell’ambito delle interazioni sociali – da venti a quaranta milioni in tre anni nella sola Cina – possiamo aggiungerne decine di milioni di più. Fucilati; assiderati; affamati; assassinati nei campi di lavoro e nelle prigioni, in cui agli individui veniva risucchiata anche l’ultima stilla di energia prima di essere abbandonati al loro destino. E tutto intorno a noi, un pullulare di vedove, di vedovi e di orfani.
Nessun’altra causa, mai, nella storia di tutta l’umanità, ha generato più implacabili tiranni, più innocenti macellati e più orfani dei regimi socialisti. Essi hanno superato, in modo esponenziale, tutti gli altri sistemi intesi ad accatastare morti. I corpi sono tutti intorno a noi. Ed è qui il problema: nessuno ne parla. Nessuno li onora. Nessuno prova pietà per loro. Nessuno si è suicidato per essere stato un apologeta della causa che li ha condannati a quella fine. Nessuno paga dazio per loro. Nessuno è braccato per rendere conto dei propri misfatti. È esattamente ciò che Solženicyn prevedeva in Arcipelago Gulag “.. No, nessuno avrebbe dovuto risponderne; nessuno sarebbe stato indagato”. E fino a che ciò non accade, non vi sarà alcun “post socialismo”.
L’Occidente accetta un epocale, mostruoso ed imperdonabile doppio standard di moralità. Ripassiamo i crimini perpetrati dal nazismo quasi ogni giorno, li esponiamo ai nostri figli come delle lezioni storiche e morali definitive, e mostriamo solidarietà verso tutte le vittime. Al contrario, se si eccettua qualche mosca bianca, siamo del tutto silenti sui crimini commessi dal comunismo. Così i cadaveri giacciono in mezzo a noi, inosservati, praticamente ovunque. Abbiamo insistito sulla “denazificazione”, e censuriamo con asprezza coloro che edulcorano il passato in nome di nuove o emergenti realtà politiche. Ma non è mai stata effettuata una simile opera di “decomunistizzazione”, ancorché il massacro degli innocenti sia stato esponenzialmente maggiore, e coloro che hanno decretato le condanne e attivato i campi di lavoro e di sterminio siano ancora in vita. Se i tratta di nazisti, si dà la caccia ai novantenni, giacché le vittime reclamano giustizia. Nel caso dei comunisti, invece, abbiamo bandito ogni “caccia alle streghe” – preferendo che siano i morti a seppellire i vivi. Ma i morti non possono seppellire nessuno.
ukraine_33Pertanto, i cadaveri giacciono in mezzo a noi, ignorati, e chiunque sia dotato di un briciolo di partecipazione emotiva li può scorgere proprio dalla loro assenza nella nostra coscienza morale, ovunque: nelle televisioni e negli schermi cinematografici, da cui, nudi ed inermi, sembrano voler uscire; nelle nostre aule scolastiche, mentre sono paralizzati dal dolore; nei consessi politici e culturali, dove stanno distesi e senza degna sepoltura. Si siedono accanto a noi, mentre teniamo le nostre conferenze.
Non avremmo potuto assistere ad alcun superamento del nazismo senza un’effettiva consapevolezza, senza aver fatto i conti con il passato, senza giustizia e senza ricordo. Ecco perché fino a che non decideremo di dare degna sepoltura a queste vittime innocenti del comunismo, non potremo mai sbarazzarci dell’era del socialismo.
I nostri artisti sono giustamente ossessionati dall’Olocausto, che si è protratto per diversi anni e ha avuto un impatto minore, sebbene ovviamente incommensurabile. Quando guardiamo Notte e nebbia, Shoah, Schindler’s List, e la innumerevole serie di film similari, ci commuoviamo, proviamo dolore e rammarico, e recuperiamo le corde più intime del nostro spirito.
L’Olocausto comunista, di portata maggiore e protrattosi ininterrottamente per decenni, il più grande ossario della storia umanità, non ispira tali artisti. Il solo film girato in materia, peraltro una pellicola poco consistente e modesta, Una giornata di Ivan Denisovič, tratto dal romanzo di Solženicyn, non viene quasi mai trasmesso e non è nemmeno reperibile in commercio. L’Olocausto comunista avrebbe dovuto generare una fioritura nell’arte occidentale, e un’esplosione di testimonianze e di coinvolgimento emotivo. Avrebbe dovuto suscitare un oceano traboccante di lacrime. Al suo posto, invece, troviamo solo una landa ghiacciata di indifferenza. I ragazzi che negli anni ‘60 esponevano i ritratti di Mao e del Che sulle loro pareti del college – il che, da un punto di vista morale, è l’equivalente dell’appendere i ritratti di Hitler, Goebbels, o Horst Wessel nella propria stanzetta – ora pontificano ai nostri figli sulla superiorità morale della loro generazione politica. Ogni libro di testo di storia si sofferma sui crimini del nazismo, ne indaga le cause di fondo, ed espone una lezione che deve essere appresa. Tutti hanno contezza del numero di “sei milioni”. Al contrario, si discetta sempre circa gli “errori” del comunismo e dello stalinismo (il termine viene ripetuto sino alla nausea). Se si chiedesse a un liceale quanti furono i morti sotto il regime di Stalin, questi ti risponderebbe, anche adesso, “Migliaia? Decine di migliaia?”.
La conta è davvero semplice. Il socialismo, ovunque esso disponesse dei mezzi per pianificare una società, per perseguire efficacemente il suo obiettivo di abolire la proprietà privata, le disuguaglianze economiche, e l’allocazione del capitale e delle merci riveniente dagli scambi di libero mercato, è culminato invariabilmente nell’annientamento di ogni libertà: individuale, economica, religiosa, associativa, politica. La sola collettivizzazione del settore agricolo ha arrecato sofferenze indicibili, penuria, oltre alla condanna della proprietà intesa come il frutto del proprio lavoro. Questo processo può essere visto, nel migliore dei casi, come la capacità, perseguita attraverso l’orrore e la servitù, di edificare la città di Gary, in Indiana, senza includervi gli aspetti positivi, e senza nemmeno la possibilità di poterla conservare.
Se vogliamo essere degli agenti morali, dobbiamo necessariamente riconoscere questi fatti terrificanti in maniera appropriata ed essere testimoni di verità, individuando le precise responsabilità per quelle temperie, tra le più orribili che si siano mai vissute. Fino a che il socialismo – proprio come il nazismo o il fascismo che hanno dovuto fare i conti con i campi di sterminio e con il massacro di innocenti – non si confronterà con la sua via vissuta, vale a dire le più grandi atrocità che si siano mai registrate nella storia dell’uomo, sarà inutile attenderci un “post socialismo”.
Non succederà. La patologia degli intellettuali occidentali li ha condannati ad un rapporto conflittuale con quel sistema di valori e di concezioni – sussumibili nel libero scambio e nei diritti individuali – che ha consentito il più straordinario sollevamento dalla sofferenza; il più formidabile fenomeno di liberazione dal bisogno, dall’ignoranza e dalla superstizione; nonché il più grande incremento nella generazione di ricchezza e di opportunità nella storia del genere umano.
gulagQuesta patologia consente all’intellighenzia occidentale di oltrepassare l’ Everest dei corpi delle vittime del comunismo, senza dover versare una lacrima, senza uno scrupolo, un rimpianto, un atto di contrizione, o senza la necessità di intraprendere un percorso di catarsi, per la propria anima e per la propria psiche.
I disturbi cognitivo-comportamentali manifestati dagli intellettuali occidentali, che si riscontrano, da un lato, di fronte alle realizzazioni conseguite in seno alle loro stessa società e, dall’altro, di fronte all’ideale socialista ed ai suoi risvolti concreti, sono sbalorditivi.
Nei loro paesi, in cui si può assistere ad un processo di mobilità sociale senza precedenti, essi gridano alla “casta”. In una società che trabocca di copiosi beni e servizi, se la prendono, alternativamente, con la “povertà” o con il “consumismo”. Laddove vi sono persone che hanno la possibilità di conseguire uno standard di vita più prospero, più vario, produttivo, maggiormente rispondente alle proprie scelte individuali, oltre che estremamente più soddisfacente, demonizzano “l’alienazione”. In un contesto che ha emancipato la donna, le minoranze razziali, quelle religiose, i gay e le lesbiche, in una misura che nessuno avrebbe potuto nemmeno sognarsi solo cinquant’anni fa, ne stigmatizzano l’ “oppressione”. In una società in cui può prosperare la carità privata, lamentano “l’avarizia”. In un contesto sociale in cui vi sono centinaia di milioni di persone che vivono alle spalle dei rischi, della conoscenza, e dei capitali intrapresi o investiti da altri, denunciano lo “sfruttamento” di questi free rider. In una società che ha rotto, in nome del merito, le catene apparentemente eterne dello status per nascita, piangono l’ “ingiustizia”. Vagheggiando mondi fantastici e perfezioni mistiche, si sono chiusi all’ Occidente, al miracolo liberale dei diritti individuali, alla responsabilità individuale, al merito, e alla soddisfazione umana. Proprio come Marx, essi mettono parole come “libertà” tra virgolette ogniqualvolta devono riferirsi all’Occidente.
Ironia della sorte, naturalmente, le principali tradizioni del socialismo e del comunismo hanno rivendicato entrambe le proprie credenziali marxiste, ed i marxisti sicuramente avevano ragione su una cosa: dobbiamo giudicare i sistemi sociali, in ultima analisi, non in virtù della bontà delle loro teorie e delle loro astrazioni ideali, bensì alla luce delle realizzazioni fattuali e dei compimenti storici e pratici effettivamente conseguiti. Con ineffabile mala fede, i marxisti hanno applicato tale metro di giudizio a tutto, ad esclusione di ciò che presumibilmente contasse di più per loro. Da un capo all’altro della terra, intellettuali, propagandisti, professori e apologeti del marxismo non compararono mai criticamente il “mondo socialista” esistente con i modelli sociali, più o meno liberali, dell’Europa occidentale e del Nord America. Essi comparavano, invece, una immaginaria e vagheggiata società perfetta, che non aveva mai visto la luce, ad una società imperfetta, del tutto esistente e che era stata in grado di conseguire le meraviglie attuali. I marxisti erano entusiasti di denunciare tale antirealismo con il termine sprezzante di “idealismo filosofico” quando il loro bersaglio era rivolto ad altri. Ad essi, tuttavia, era assolutamente consentito mirare ad un mondo ideale, costruito a loro immagine e somiglianza: il che, da solo, bastava per catalogarli come i più antirealisti in assoluto. Ed è corretto, ora che l’evidenza storica ha messo all’angolo il marxismo, che i loro eredi – i postmodernisti anti–occidentali che si abbeverano alla fonte della cultura di sinistra – abbraccino in maniera esplicita quell’antirealismo, come una precisa impostazione filosofica.
Cosa sarebbe successo “dopo il socialismo”?
L’elenco è lungo: un’epifania anti-comunista. Un festival delle celebrazioni. Un fiorire di borse di studio comparative per indagare i due modelli di organizzazione sociale. Un resoconto completo di come si vive nella realtà comunista – da un punto di vista politico, economico, morale, ecologico, sociale, culturale, e via dicendo. (Di fatto, vi sono aspetti che una persona non vorrebbe conoscere?) Una riabilitazione di quei principi fondanti che – in nostro favore – hanno sempre fatto la differenza. Una serie di profondi, angosciati, e catartici “mea culpa” da parte di tutti coloro che, senza malafede alcuna, si sono sempre tragicamente sbagliati. Una profonda sensibilità verso la natura e le politiche dei regimi comunisti che ancora persistono. Una revisione dei programmi di studio. Un riconoscimento del valore incommensurabile di un governo che sia veramente limitato.
comunismIn verità, è proprio per evitare di ridar nuova linfa ai principi liberali classici che i nostri insegnanti, i professori, gli operatori dei media e i registi ignorano l’indagine comparativa che i tempi richiederebbero, in maniera così urgente. In effetti, è proprio per il timore delle lezioni che sarebbero insegnate dalla conoscenza e dalla verità che non si darà corso ad alcuna revisione del piano di studi. Per almeno una generazione, il disprezzo intellettuale per la società liberale – da intendersi come modello sociale, come un set di istituzioni, e una costellazione di ideali e principi ispiratori – è stato il fulcro ineliminabile per le scienze umanistiche e per talune scienze sociali. Questo aspetto si è semmai oltremodo acuito, non è cambiato, nonostante il fatto che ora non possano più accampare scuse intellettuali per ignorare certe verità.
Sappiamo che lo scambio libero e volontario tra gli individui, spinti ad essere moralmente responsabili sotto il dominio del rule of law, genera sia la prosperità che il fiorire di una varietà senza pari di opzioni di scelta. Tale modello è stato anche un presupposto indefettibile di promozione dell’irripetibilità individuale e della libertà. Al contrario, i regimi di pianificazione centrale creano la miseria ed innescano processi ineluttabili di derive verso il totalitarismo e i peggiori abusi di potere. Le società, alquanto più dinamiche, che hanno abbracciato i principi del libero mercato, incardinate su un individualismo rispettoso dei diritti, hanno modificato l’intera concezione umana della libertà e della dignità per quei gruppi in precedenza emarginati. L’intero “esperimento socialista”, di contro, è sfociato nella stagnazione più totale; in odi etnici; nella deprivazione anche delle precondizioni minime imprescindibili per attivare il rinnovamento economico, sociale e politico; nel disprezzo più radicale sia per qualsiasi forma di individualità che per i diritti delle minoranze. I nostri figli non conoscono cosa sottenda questa comparazione reale.
Per quanto riguarda i “mea culpa”, continueremo ad attenderli invano da coloro che sostengono di non aver saputo, o che ancora scelgono di non imparare. Si faccia in modo che l’intellighènzia dell’Occidente ripeta il pensiero contenuto in “Requiem”, l’opera scritta durante il terrore staliniano da Anna Akhmatova, la più grande poetessa russa del ventesimo secolo: “Io li ricorderò sempre e ovunque, non li dimenticherò mai a prescindere da quello che avverrà”. I corpi affastellati esigono un rendiconto, le scuse e il pentimento. Senza queste elementi, non vi potrà mai essere un “post– socialismo”.
Articolo di Alan Charles Kors su The Atlas Society
Traduzione di Cristian Merlo
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