
Aiuto, qualcuno mi spiega cos’è la deflazione?
E’ opinione comune che la riduzione del livello generale dei prezzi sia un male da evitare. E che anzi un sano sviluppo economico necessiti un moderato aumento dei prezzi.
Tali assunti sono entrambi errati e sottendono la volontà di giustificare politiche inflazionistiche che hanno due soli beneficiari certi: lo stato e il sistema bancario.
Prima di entrare in argomento è necessario fare una premessa.
La riduzione del livello generale dei prezzi viene comunemente indicata con il termine deflazione. Questo è un errore che confonde l’effetto con la causa: la deflazione è la riduzione di offerta di moneta, evento che tende a generare un aumento del potere di acquisto della moneta, ovvero una riduzione del livello generale dei prezzi (lo stesso errore viene fatto per il termine inflazione, che è l‘aumento di offerta monetaria e non il conseguente aumento dei prezzi).
Esistono casi in cui si assiste ad una riduzione del livello dei prezzi senza che ci sia deflazione. Questo avviene, ad esempio, nel sano processo di crescita di un’economia che aumenta la sua produttività grazie all’incorporamento di nuove tecnologie e all’accumulazione di capitale che è frutto dello spirito imprenditoriale e del naturale aumento di risparmio volontario. Tale processo di aumento di offerta di beni e servizi determina una maggior richiesta di moneta e, a parità di offerta monetaria, comporta il conseguente aumento del potere di acquisto di quest’ultima (ovvero la riduzione del livello generale dei prezzi).
In un’economia che cresce, quindi, se non aumenta l’offerta monetaria i prezzi sono destinati a scendere.
Ora, gli economisti monetaristi e keynesiani ci vogliono far credere che la riduzione dei prezzi è dannosa e che pertanto si deve aumentare l’offerta monetaria non solo per neutralizzarla ma adddirittura per invertirne il senso.
Per inciso, le politiche monetarie delle banche centrali sono esplicitamente inflazioniste ponendosi come obiettivo un aumento del livello dei prezzi annuali intorno al 2%. Che, per chi non vuole farsi i conti, equivale ad una perdita del potere di acquisto della moneta del 50% in 34 anni.
Il punto è che l’assunto che la riduzione dei prezzi sia il male, mentre un aumento dei prezzi sia il bene, è sbagliato e pretestuoso.
Fra l’altro tale assunto è controintuitivo per l’opinione pubblica, visto che prezzi decrescenti implicano salari reali crescenti, e nonostante ciò, è diventato credenza comune al punto da non dover nemmeno ritenere utile la verifica della sua veridicità, tanta è stata la propaganda in tal senso.
Esaminiamo sinteticamente alcuni motivi addotti che giustificano tale assunto e vediamo perchè essi sono insussistenti (una trattazione approfondita la potete trovare nel bell’articolo di Philipp Bagus “Five common errors about deflation” al seguente link ).
1. La deflazione comporta una non equa ridistribuzione di ricchezza
Sicuramente la deflazione implica ridistribuzione di ricchezza, svantaggia i debitori e premia i creditori, ma non si può assumere che tale ridistribuzione siamo meno equa di quella determinata dall’inflazione monetaria. La deflazione inoltre colpisce un sistema bancario con una leva finanziaria molto spinta, tale leva però è conseguenza di un privilegio di cui beneficia il sistema bancario, ovvero quello della riserva frazionaria. La deflazione infine disincentiva la creazione di grandi debiti pubblici, la qual cosa non può essere definita un male.
2. La deflazione comporta riduzione di produzione
Tale motivazione deriva dal fatto che poichè la deflazione può danneggiare debitori, aziende (che vedono i prezzi di vendita ridursi) e il sistema finanziario, ne consegue che la produzione nel suo complesso si riduce. Il punto è che la ridistribuzione di ricchezza non riduce il livello di produzione. Alcuni business potranno essere svantaggiati, nel caso in cui ad esempio i prezzi di vendita calino prima dei prezzi di fornitura, altri viceversa saranno avvantaggiati. Gli imprenditori potranno comunque sempre cercare di anticipare il cambiamento dei prezzi e non c’è alcun motivo per cui tale attività sia più difficile nel caso di riduzione dei prezzi rispetto al caso di aumento. Anche gli eventuali fallimenti dovuti a soggetti indebitati non in grado di sostenere il loro debito comporteranno cambiamenti nell’azionariato che non necessariamente devono avere un effetto sul livello di produzione.
3. La deflazione comporta disoccupazione
Questo argomentazione si basa sul fatto che poichè la riduzione dei prezzi comporta l’aumento dei salari reali, ciò fa sì che i datori di lavoro riducano gli impiegati. Va detto tuttavia che la disoccupazione non è conseguenza della riduzione dei prezzi, ma della non flessibilità dei salari. La disoccupazione infatti può avere solo due cause: disoccupazione volontaria per non voler accettare salari ridotti, o disoccupazione per l’imposizione da parte dello stato di salari minimi che non possono essere pagati dai datori di lavoro. La prima non deve necessariamente crescere se la riduzione dei salari nominali non implica riduzione dei salari reali. La seconda è una conseguenza dell’interventismo statale. Impiegati e datori di lavoro quando stipulano un contratto di lavoro anticipano il futuro andamenti dei prezzi e nel far questo possono sbagliare, la qual cosa implica un riaggiustamento periodico del livello dei salari. Non c’è tuttavia motivo di ritenere che gli errori siano superiori in caso di deflazione rispetto al caso di inflazione dei prezzi.
4. La deflazione posticipa la spesa e ciò amplifica ulteriormente la riduzione dei prezzi in un processo che si autoalimenta
Questo perchè la riduzione della spesa comporta l’aumento di saldi monetari e cioè fa aumentare la domanda di moneta con conseguente aumento del potere di acquisto della stessa e pertanto riduzione dei prezzi. A tale proposito, però, va detto che:
- innanzitutto, tale aumento dei saldi non può crescere indefinitamente perchè i consumi non possono essere evitati oltre un certo limite;
- poi, la riduzione temporanea dei consumi comporta l’aumento del risparmio che ha un effetto benefico sulla struttura produttiva, che si allunga e diventa più intensiva di capitale.
Quindi, quello che si può dire è solo che la riduzione dei prezzi, così come il loro aumento, genera trasferimenti di ricchezza all’interno del sistema economico. Punto.
Tra i due, quindi, vista l’insussistenza dei motivi a favore della riduzione del livello generale dei prezzi, sarebbe preferibile propendere per la riduzione dei prezzi, piuttosto che per un loro aumento.
L’ inflazione monetaria è infatti una forma di tassazione invisibile che avvantaggia i soggetti indebitati e i primi benficiari della moneta e svantaggia i rispamiatori e gli ultimi beneficiari della moneta. Se non altro per motivi etici essa andrebbe evitata, perchè:
- nasconde il prelievo fiscale favorendo l’indebitamento statale (e quindi la crescita della spesa pubblica, l’inefficiente utiilizzo delle risorse e il sempre crescente peso dello stato sulla vita dei cittadini con relativa progressiva perdita delle libertà individuali);
- disincentiva comportamenti virtuosi di risparmio volontario che consentirebbe l’accumulo di capitale e l’aumento generale di ricchezza,
- mortifica lo spirito imprenditoriale.
Ma ammesso che fosse preferibile la stabilità dei prezzi per evitare indesiderati trasferimenti automatici di ricchezza e semplificare il calcolo economico, sicuramente sarebbe poco opportuno raggiungere questo obiettivo attraverso un’autorità centrale che abbia il potere di aumentare arbitrariamente l’offerta monetaria. Questo perchè l’iniezione di moneta promossa da un’autorità centrale lascia un enorme potere discrezionale arbitrario in mano a quest’ultima e in definitiva avvantaggia chi la fa (banche) e i soggetti che ne beneficiano per primi scelti da chi la fa (stato, aziende collegate allo stato, soggetti dotati di potere economico che possono ricevere crediti bancari con più facilità), e così facendo aumentano le disuguaglianze economiche.
Viceversa questo obiettivo potrebbe essere molto più efficientemente e eticamente raggiunto attraverso una moneta merce lasciata al funzionamento del libero mercato.
Vediamo perchè.
Supponiamo che questa moneta sia l’oro e che chiunque possa decidere di estrarlo e immetterlo nel sistema economico ai fini di ottenerne un profitto. L’offerta di oro procederà finché ci sarà un margine di profitto per il produttore, ovvero una differenza positiva tra il suo prezzo e il suo costo di produzione. Immaginiamo ora che, in un certo momento, la produzione di oro sia nulla, perché i costi di produzione sono uguali al prezzo dell’oro e quindi i margini di profitto per i produttori sono zero. Se l’economia cresce, abbiamo visto che il livello generale dei prezzi, a parità di offerta di moneta, cala. Ciò determina la riduzione dei costi di produzione dell’oro e conseguentemente l’aumento di offerta di oro (essendoci nuovamente dei profitti per i produttori di oro). L’aumento di offerta di oro determinerà la riduzione del suo potere di acquisto, ma essendo l’oro moneta, la riduzione del potere di acquisto dell’oro determinerà l’aumento del livello dei prezzi; i costi di produzione dell’oro quindi aumenteranno fino a quando questi pareggeranno il prezzo dell’oro e la produzione di oro si fermerà non essendoci più profitto per i produttori.
In definitiva, una moneta libera la cui offerta è lasciata al libero mercato determina una certa stabilità dei prezzi e determina un’offerta di moneta che tende a crescere naturalmente con la crescita del sistema economico.
L’ offerta monetaria inoltre non potrà crescere indefinitamente, ma si fermerà necessariamente quando i costi di produzione della moneta (che tendono a crescere con la crescita del livello generale dei prezzi) raggiungeranno il prezzo della moneta (che tende a scendere con l’aumento della sua offerta).
Infine, non essendoci un unico punto di immissione della nuova moneta, le asimmetrie informative saranno limitate e non ci saranno soggetti che avranno il vantaggio di ricevere la nuova moneta per primi a discrezione di un’autorità centrale.
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