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Donald Trump

Donald Trump

Parrebbe impossibile parlare equilibratamente di Donald Trump durante la tempesta e a pochi giorni dall’uscita di scena come presidente degli Stati Uniti.
Ma c’è un metodo che soccorre sempre, quello del poeta Riley quando scrisse: quando vedo un uccello che cammina come un’anatra e nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, chiamo quell’uccello “anatra”. Le cose che sono evidenti, chiamiamole con il loro nome.
Un’altra cosa è indispensabile, e poi non serve altro: il rasoio di Occam, secondo il quale entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, vale a dire che le soluzioni semplici sono sempre le più valide.

Se noi guardiamo alla parabola politica dell’anatra Trump non abbiamo tanta difficoltà a vedere che cammina, nuota e starnazza appunto come un’anatra. Solo con continue e reiterate torsioni del pensiero possiamo trasformare quest’anatra  nell’animale che vorremmo. Al massimo otteniamo un ornitorinco, bastia fantastica che dubitiamo esista davvero.

All’inizio l’anatra Trump era un democratico. La sua famiglia si è arricchita con i dem, ha fatto affari con le amministrazioni dem, ha costruito le case popolari di mezzo stato di New York pagato dai democratici. Su quelle basi solidamente stabilite con il potere politico la famiglia Trump ha costruito la fortuna che il nostro erediterà e farà fruttare in alterne vicende finanziarie non sempre fortunate. 
E fino alla vigilia della candidatura mantenne solidi e fruttuosi contatti con la famiglia Clinton.
Ha sempre votato dem ed è sempre stato dem.
Poi ha scoperto che il GOP era scalabile e l’ha scalato. Un GOP sfiatato, senza idee, logorato, se l’è preso. Del tutto privo di cultura e di esperienza politica non poteva fare diversamente.
Prima ha annientato i suoi avversari con istrionismo e un’indubbia capacità di comunicazione con l’elettorato, poi con intelligenza ha battuto i dem sul loro terreno,  ma gli strumenti, la cultura, la stessa retorica erano e sono rimaste dem. La rust belt fu conquistata promettendo protezione ai lavoratori espulsi dal processo di valorizzazione per obsolescenza degli impianti e mancata innovazione dei fattori produttivi. Lo stesso per la classe media esposta alla concorrenza e desiderosa di mantenere senza scosse il suo placido tenore di vita.
Nel frattempo la base del GOP negli ultimi vent’anni si è radicalizzata e si è spostata a destra, ha eletto sindaci, governatori, deputati, senatori e presidenti che rispondono a questa sensibilità. E la bolla informativa della destra americana – creata dalla tv e rafforzata dai social media – è diventata completamente impermeabile al giornalismo più scrupoloso e affidabile, e quindi alla realtà. 
Oltre alla proletarizzazione del GOP, che in campo sociale l’ha portato a sinistra dei dem, quattro anni fa Trump ha raccolto i frutti di questa radicalizzazione ed è arrivato alla Casa Bianca avendo alle spalle la sua sola carriera da imprenditore più o meno di successo e la fama da personaggio televisivo di reality show. Praticamente l’unico presidente nell’intera storia americana senza alcuna esperienza politica o militare.

Non c’è dubbio che questa vittoria sia l’affermazione di istanze profonde della società americana, corrispondenti a una crisi di fiducia nel sistema, a un sentimento di estraneità rispetto ai riti politici sentiti lontani, all’esigenza di rappresentarsi in prima persona.
Donald Trump ha saputo parlare a queste due anime del paese, traendone gli umori peggiori e facendone la base populistica del suo programma elettorale.
Vinse, di stretta misura, con fiuto e intelligenza, lì dove si deve vincere, sul terreno avversario. Ma le origini reclamano il tributo di questa frequentazione e producono il frutto velenoso: invece di proporre un programma di riconversione industriale,  ecco la soluzione populista di sovvenzionare mediante dazi produzioni ormai fuori mercato, le miniere di carbone, le fabbriche di ruggine della cintura operaia che l’ha eletto.
La Thatcher, aquila, chiuse le miniere e aprì alla concorrenza. Trump, anatra, inondò il midwest di food stamps, sussidi e cartamoneta.

Non si può immaginare un contrasto più stridente e impietoso.
L’esito del conservatorismo compassionevole di Bush e della riconversione industriale e tecnocratica di Obama, combinati insieme, si è trasformato un una macchina elettorale costosissima e in perdita, bisognosa di un flusso costante di dollari.

Le idee, certo, rimangono codine per compiacere l’elettorato Dio Patria Famiglia, ma sono lubrificante dall’olio della FED, prontamente messa sotto controllo e al lavoro, producendo quel che conta, the beef, che è consistito nella più grande espansione monetaria della storia in tempo di pace. E non in tempi di covid, dato che la stampa è iniziata ben prima, con l’economia che ancora andava.

Come di consuetudine oggi, l’espansione è avvenuta a debito. Oggi gli stati non colmano il disavanzo con le tasse, troppo arcaico, soprattutto troppo impopolare. Gli stati stanno andando verso la liberazione delle tasse. Il rimborso del debito è rimandato a un orizzonte lontano, ad altre stagioni elettorali, se la vedrà qualcun altro. Finirà con delle guerre.
Obama almeno ha avuto la moralità di fare corrispondere i maggiori servizi imposti con maggiori tasse, la corruzione dello stato non era giunto al livello così basso da promettere il bengodi gratis, meno tasse e più spesa e pagherà qualcun altro, un giorno, forse, chissà.

La conseguenza è stata, immediatamente, la spesa in portaerei, l’unico modo per garantirsi che il debito venga pagato da qualche paese del sud est asiatico e non dalla middle class americana. Il budget militare diviene stratosferico, con il più grande aumento della storia americana. 
Il presidente che non ha fatto guerre ma ha speso in armi più di ogni altro.
Ma vedremo che questo e altri calcoli non hanno avuto le somme attese.

Il ritiro dalla Nato era iniziato con Obama. Il conflitto con la Cina è iniziato da Obama, parallelamente a quello e conseguente alla maggior attenzione per il Pacifico. Trump ci ha messo un cieco disprezzo per il multilateratismo, da prepotente e da impotente, e i dazi, che si sono prontamente, come da manuale, ritorti contro di lui.
Il multilateralismo è l’unico modo per creare un mercato. Un’area con regole comuni, valide per tutti, consente di scambiare prodotti, finanza e persone. Creare aree geografiche all’interno delle quali chiunque possa commerciare liberamente significa che le regole sono valide per tutti allo stesso modo. Cittadini di piccoli paesi e di grandi paese hanno le stesse possibilità commerciali. E’ un mercato, appunto.
I patti bilaterali tra stati, invece, pongono in capo alla potenza dello stato la possibilità di commerciare. Stati potenti possono spuntare condizioni migliori e uccidere l’economia di paesi meno potenti.  La competizione non è più tra individui, tra i prodotti scambiati sul mercato, ma è condotta dalla potenza della nazione.
L’anatra Trump sempre operò per il bilateralismo. Abituato da palazzinaro a trattare affari e privo della cultura per capire il senso di quel che stava facendo, invece di imporre il rispetto delle regole da parte cinese, cosa d’altronde doverosa, preferì distruggere il WTO e i rapporti di libero scambio atlantico. Il risultato è che la Cina ha istituito un’area di libero scambio nel Pacifico, comprendente i paesi fino all’Australia, mentre l’occidente si trova alle prese con mercantilismi antichi, inattuali.

C’è un motivo per il quale un liberale possa approvare questo?
E i dazi? Può un lettore di Bastiat accettare i dazi, soprattutto quando sono usati come un mezzo per costringere l’avversario a miti consigli?
I dazi di Trump sono stati uno strumento di guerra economica e un modo per rendere le miniere del Midwest ancora profittevoli, aggravando i costi per i consumatori e rendendo inutile l’aggiornamento tecnologico del sistema.
E, come tutte le carte giocate male, hanno dato alla Cina un vantaggio che mai finora aveva avuto.
L’economia americana si è mantenuta solo a prezzo di stampa di moneta. Il repubblicano Trump ha agito come e peggio di un dem. Le origini non si smentiscono.

Anche la politica estera ha seguito le orme di Obama, pedissequamente, con poca originalità, ancor meno frutti e molte più bombe.
I siti che davano il conteggio delle bombe quotidianamente lanciate da Obama nei vari scenari di guerra si sono scordati di aggiornare le informazioni nel periodo di Trump, ma la realtà è che l’ultima amministrazione americana ha superato ogni precedente record, così come ci sono più soldati in Iraq, in Siria, in Afganistan di quanti ce ne siano mai stati durante l’amministrazione Obama.
La mancanza di strategia, la concezione del mondo come un deal, l’incapacità di vedere la complessità delle cose,  una disposizione umana che impediva la collaborazione con gli esperti hanno portato a risultati di politica estera che è poco definire deludenti.
La cresciuta aggressività della Cina nel mare cinese meridionale, le minacce al Giappone e a Taiwan, l’inglobamento di Hong Kong, la sopravvivenza del regime di Kim Jong-un, anzi la sua accresciuta rispettabilità internazionale, sono fallimenti della politica estera dell’era Trump. 
L’abbandono del terreno in Siria, con il disimpegno iracheno, e la cessione di fatto del paese a Russia e Turchia, con tutti i presenti e possibili smottamenti in Libia, in Libano, sono altra cosa da ascrivere al capitolo di un’America impotente, inaugurato dall’imbelle Obama e proseguita da un ancora più imbelle Trump, inconsapevole perfino dei suoi errori. Perfino nei dettagli si vede l’impronta del predecessore, come l’amicizia e la stretta collaborazione d’affari con l’Arabia saudita, tanto rimproverata a Hillary Clinton in campagna elettorale quanto poi fattiva una volta assunto il comando.

Il ritiro dalla Nato era iniziato con Obama.  E’ nei fatti la necessitò di un maggiore impegno dei paesi europei e la revisione degli obiettivi dell’alleanza atlantica ma la sua distruzione porterebbe a un inutile isolamento degli Stati Uniti. Il tentativo di rompere l’Unione europea è mortale per gli Stati uniti più ancora che per noi. Ma l’idea arcaica del nazionalismo è tutto quello che l’anatra Trump ha potuto mettere sul piatto.
Russia e Turchia stanno già combattendo in Libia per spartirsi la ghiotta preda lasciata libera. Netanyahu è stato tra i primi a congratularsi per la vittoria di Biden perché sa bene che è molto meglio avere un nemico piuttosto che un amico imprevedibile e capriccioso.
Gli accordi di Abramo sono stati infatti la somma necessaria di tre debolezze: Netanyahu in difficolta sotto elezioni, gli Emirati coscienti del declino delle rendite petrolifere e bisognosi di aprire canali con la grande finanza e Trump per mettere a frutto un colpo d’immagine che riscattasse le pessime prove fino allora compiute. Ma gli accordi sono messi in difficoltà dalle truppe hezbollah ora di nuovo sicure in una Siria sotto tutela iraniana.
In Venezuela il disimpegno ha congelato la situazione e sta permettendo la colonizzazione del continente da parte cinese. E per la prima volta dopo la crisi di Cuba aerei russi capaci di trasportare armamento nucleare hanno potuto fare scalo nel continente americano, a Caracas. La perdita di influenza, che non è il necessario frutto dell’isolazionismo ma solo di una politica sprovveduta, è drammatica.
Fa quack quack, è un’anatra, nessun dubbio.

In politica interna è stato divisivo al massimo, o con me o contro di me, contraddicendo la lettera e lo spirito della costituzione americana.
Eliminati i nemici esterni, troppo difficili da capire e imprevedibili quando si è privi di un minimo di strumentazione concettuale, nella logica amico-nemico schmittiana non rimane che coltivare il nemico interno.  
L’effetto è stato la politicizzazione delle sardine americane che, unendosi a gruppi delinquenziali, hanno fatto crescere a dimensioni impensabili movimenti di protesta prontamente sponsorizzati dai dem. 
Ma in questo momento in America c’è una reazione di sistema alla condotta di Trump che supera la logica dell’appartenenza politica e del politicamente corretto. 
La continua denuncia dei brogli senza prove validate in giudizio viene considerata intollerabile dell’establishment americano, non solo quello legato al carro dei democratici. Ancora di più l’incitamento della folla a marciare sul Campidoglio, in quanto da un Presidente ci si aspetta un religioso rispetto della legalità anche quando si trovi dalla parte della ragione nel protestare. Perché è in gioco l’interesse generale del paese e la sua credibilità interna e internazionale. 

Quando si parla di Jefferson e si paragone il momento attuale con la proclamazione dell’indipendenza si compie un errore fatale di prospettiva. A differenza dei sanculotti i ribelli americani non si sono mai trovati nella necessità di prendere d’assalto la Bastiglia, come successivamente i bolscevichi il Palazzo d’Inverno.  In America l’idea di libertà venne colta da contadini anche analfabeti, quelli delle colonia americane, ma venne realizzato da un gruppo di uomini straordinari, di grande cultura, uomini spesso ricchi e già ai vertici della società e della cultura del tempo, i Benjamin Franklin, i Thomas Jefferson, i Thomas Paine, i John Adams e i George Washington.  Al termine della guerra d’indipendenza le istituzioni erano già pronte per accogliere senza disordini il nuovo ordinamento.

Nessuna presa del palazzo, niente sanculotti e bagni di sangue.  Perfino non dovremmo chiamarla rivoluzione: la ribellione dei coloni americani contro l’assolutismo monarchico inglese del 1776 è l’esempio di un’errata attribuzione nomenclatoria. 
La presa del palazzo non è mai stata liberale e ha sempre prodotto assolutismi.
Non c’è nulla quindi che un liberista possa trovare in Trump, non più di quello che si poteva trovare nei movimenti antisistema del ‘900, da Mussolini in poi fino a Beppe Grillo.

Questa infatti è l’anatra: fa quack in economia, fa quack in politica estera, fa quack se vediamo il rapporto con le istituzioni, cammina come un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, quack è un’anatra.

I dazi, le pressioni sulla FED e l’aumento stratosferico del budget e del debito non possono in alcun modo essere ricompresi nell’ambito del liberismo, così come non lo sono i muri e le leggi contro l’immigrazione. 
Il rigetto del multilateralismo, in assenza di azioni volte a modificare i rapporti di forza all’interno delle agenzie internazionali, contrae il mercato negli ambiti nazionali e, di fatto, è una misura nazionalista e contro il mercato.
Tutto questo non è liberale.
Ha tentato di fare strame della divisione dei poteri invocando un fürerprinzip che poi non è stato nemmeno in grado di riempire. Il fürerprinzip è quando il potere diviene autocratico e non risponde a nessuno, com’è il caso nel quale si rifiuta la collaborazione con gli altri poteri, in questo caso perché considerati corrotti e nemici. Allora il potere deve fluire dal capo, unto direttamente dal popolo, a tutti gli organi dello stato in modo che tutto funzioni secondo la sua volontà.

Questo è stato Il Trump degli ultimi giorni. Incredulo per avere perso la partita, asserragliato nel bunker con i suoi sempre più radi collaboratori, fedeli ai suoi ordini, ha imposto a quelli che ritiene suoi sottoposti ogni genere di distorsione della realtà. La schizofrenia è stata iniettata a forza nelle vene dei sottoposti, anche controvoglia. Fino ad arrivare all’ignominia di uno stato secessionista nell’anima, il Lone Star state, che tramite i procuratori legati a Trump ha ficcato il naso nelle faccende di altri stati, ricorrendo contro le loro leggi elettorali presso la Corte suprema.  Cose mai viste. Come se domani la California chiedesse conto al Texas delle sue leggi ambientali.
Questo è stato il punto più basso della vita istituzionale degli Stati Uniti, il momento nel quale il potere centrale è diventato totale e, come nella gestione dell’ordine pubblico durante le rivolte, ha travolto le prerogative degli stati.

Com’è possibile conciliare questo con il liberalismo? 
Com’è possibile per un liberale approvare l’identificazione del capo con la nazione, l’esautorazione delle prerogative degli organi intermedi, la riduzione delle autonomie, la sussunzione di ogni decisione alla discrezionalità del capo?
Com’è possibile per un liberista un indirizzo economico basato sulla spesa e sui dazi?

L’anatra si è rivelata un’anatra ma i followers cosa sono? quale strano ornitorinco è stato generato? quali bestie sono nate dalle tenebre?

E’ bene che sia finita così, con Donald Trump assediato nel suo bunker, annullato nel prestigio e domani sottoposto al rigore della legge.
Una volta finalmente elaborata la sconfitta sarà possibile affrontare la pesante eredità di quest’uomo sbagliato: l’enorme potere dato agli avversari in una nazione allo sbando e impoverita, devastata dalla malattia, arretrata e ormai vecchia nei suoi riti. 
Bisognerà trovare un’agenda che unisca invece che dividere e dia speranza a milioni di persone invece di food stamps e miniere di carbone.
Oggi, dopo solo quattro anni di demenza, si pensa solo a separarsi in galere per bianchi e galere per neri. L’anatra Trump sarà presto dimenticata e questa è la sua principale eredità politica.

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