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End the Central Banks

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Una lezione dalla Scuola Austriaca: libertà monetaria invece di banche centrali

di RICHARD M. EBELING

Gli Stati Uniti e la maggior parte del resto del mondo si trovano, ancora una volta, nel bel mezzo di una crisi inflazionistica. I prezzi in generale stanno aumentando a tassi annualizzati che, soprattutto nei Paesi industrializzati del Nord America e dell’Europa, non si registravano da oltre 40 anni. Oltre il 50% della popolazione statunitense ha meno di 40 anni, il che significa che la metà degli abitanti del Paese non ha mai vissuto un periodo di aumento dei prezzi come quello attuale.

Non sorprende, quindi, che per molti sia uno shock. Alla fine degli anni Settanta c’è stato un periodo in cui l’inflazione dei prezzi, misurata dall’Indice dei prezzi al consumo (IPC), saliva a un tasso annualizzato di quasi il 15%. Si trattava del valore più alto dal periodo della guerra civile americana, più di cento anni prima. Quindi, l’inflazione dei prezzi di quasi il 9% nell’estate del 2022 era qualcosa di totalmente nuovo per la famiglia media americana.

I prezzi non aumentano tutti dello stesso importo nello stesso momento

Vale la pena ricordare che il numero principale dell’IPC è solo una media statistica di un gruppo selezionato di prezzi specifici scelti per riflettere gli acquisti rappresentativi di una famiglia urbana americana “media” in termini di beni acquistati e di quantità relative in un ipotetico “paniere” di articoli. Scomponendo questo paniere in sottocategorie di beni e servizi diversi, molti di questi sottogruppi di beni sono stati registrati come in aumento molto di più o sensibilmente di meno rispetto al risultato generale dell’IPC. Ad esempio, nell’agosto del 2022, i prezzi del gasolio erano più alti di quasi il 69% rispetto all’anno precedente, mentre i prezzi dei generi alimentari in generale erano tra l’11 e il 13% superiori a quelli dell’agosto del 2021. I prezzi delle abitazioni erano “solo” del 6% superiori a quelli di 12 mesi prima.

Ma in qualsiasi modo la si guardi, questa è un’esperienza nuova per la maggior parte degli americani, abituati a un aumento medio dei prezzi di appena il 2-3% all’anno per gran parte degli ultimi quattro decenni. Una cosa è essere un po’ irritati perché qualcosa che costava, ad esempio, 100 dollari l’anno scorso costa 102 dollari oggi. Ma è tutta un’altra questione quando ciò che costava 100 dollari l’anno scorso può ora costare 133 o addirittura 169 dollari. Quando ciò accade non solo per uno o due o tre articoli significativi in un paniere di beni acquistati, ma per molti di essi o per la maggior parte di ciò che viene regolarmente comprato, l’”inflazione” diventa una crisi di bilancio per molte famiglie in tutto il Paese.

L’aumento dei prezzi è l’effetto di un’azione monetaria precedente

Ciò che sfugge in tutto questo è che l’aumento generale dei prezzi è un sintomo e non la causa del problema. Sappiamo tutti che se misuriamo la temperatura a qualcuno, il numero registrato sul termometro che indica la febbre non è la causa di quella febbre; ci dice semplicemente che la temperatura corporea di quella persona è superiore a quella considerata “normale”. Non spiega né risponde a ciò che si cela dietro la “lettura” del termometro.

Supponiamo che una persona abbia un reddito regolare di 1.000 dollari e che spenda, ad esempio, 500 dollari in beni di consumo “x”, 250 dollari per il bene “y” e 250 dollari per il bene “z”. Se questo è tutto il denaro a sua disposizione e vuole aumentare la spesa per il bene “y” a 300 dollari, deve ridurre i suoi acquisti di 50 dollari sul bene “x” o sul bene “z”, o su una combinazione ridotta dei due. Potrebbe attingere alla liquidità accumulata in precedenza o prendere in prestito i 50 dollari da qualcun altro. Nel primo caso, però, si arriverà a un punto in cui si sarà esaurita tutta la liquidità disponibile e si dovranno limitare gli acquisti complessivi al reddito abituale di 1.000 dollari. Se prende in prestito il denaro, significa che il prestatore deve ridurre di 50 dollari il prestito concesso a un altro mutuatario.

Che si tratti di un individuo o di una comunità di individui, la somma totale di denaro a disposizione di quella persona o di quel gruppo stabilisce il massimo di dollari offerti in cambio di beni e servizi desiderati, nel loro insieme. Solo se il numero di dollari nelle mani di quell’individuo o di quella comunità aumenta, la domanda e i prezzi di uno o più beni possono aumentare senza una diminuzione complementare della domanda di denaro per qualche altro bene. L’”inflazione dei prezzi” complessiva non può verificarsi per un periodo di tempo prolungato senza un precedente o contemporaneo aumento della quantità totale di denaro nella comunità economica di acquirenti e venditori.

Il gold standard serviva come “controllo” dell’inflazione

Il tipo di gold standard che prevaleva prima della Prima Guerra Mondiale costituiva un controllo naturale su qualsiasi aumento dell’offerta di moneta in qualsiasi Paese. Le valute cartacee (“banconote”) emesse dalle banche centrali o dalle banche commerciali dell’epoca non erano i “soldi” veri e propri. Si trattava di crediti nei confronti di quantità d’oro depositate dai clienti delle banche, che servivano come comodi sostituti dell’oro per facilitare le transazioni di mercato quotidiane. In linea di principio, i depositanti delle banche potevano riscattare queste banconote in cambio di una somma fissa di oro durante le normali ore lavorative. In pratica, i governi potevano “intervenire” e influenzare l’offerta di moneta in vari momenti, ma in generale si trattava dell’eccezione e non della regola, e solo entro limiti relativamente ristretti.

In presenza di un sistema del genere, se il numero di banconote dovesse aumentare in generale, ciò richiederebbe un afflusso netto di oro nel sistema bancario nel suo complesso. Ad esempio, se aumentasse la domanda di oro come moneta, il suo valore aumenterebbe, mettendo in moto la redditività della prospezione, dell’estrazione e della lavorazione dell’oro, con conseguente aumento del conio di oro supplementare sotto forma di monete o lingotti. A questo punto depositandolo l’oro aggiuntivo in un istituto bancario, verrebbero emesse come diritto su di essonuove banconote a rappresentare quest’oro. Allo stesso modo, se si verificasse un ritiro netto di oro dal sistema bancario, la quantità totale di banconote in circolazione diminuirebbe.

Quanto appena spiegato è, senza dubbio, una semplificazione che in realtà non è mai stata perfettamente corrispondente o seguita. Tuttavia, riflette le “regole del gioco” monetarie generali nell’ambito del gold standard un tempo prevalente, che manteneva gli aumenti dell’offerta di moneta politicamente influenzati all’interno di limiti ristretti, sia all’interno dei Paesi che tra di essi.

La prima guerra mondiale spezzò le catene d’oro che limitavano l’inflazione

Ma tutto questo cambiò con l’avvento della Prima guerra mondiale nel 1914. Tutte le potenze belligeranti in Europa portarono rapidamente i rispettivi Paesi “fuori dal gold standard”, cioè vietarono il rimborso di banconote in oro o l’esportazione di oro senza l’autorizzazione del governo. Le rispettive banche centrali ricevettero l’ordine di fornire le somme monetarie necessarie per coprire finanziariamente gran parte dei costi di guerra; di solito, la procedura prevedeva che il governo nazionale emettesse titoli di guerra e che la banca centrale li acquistasse e stampasse cartamoneta per comprarli, così la cartamoneta passava nelle casse del governo per essere spesa secondo le necessità della guerra.

Gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco degli Alleati solo nell’aprile del 1917, poco più di un anno e mezzo prima della fine della guerra nel novembre del 1918. Gli Stati Uniti non uscirono dal gold standard come gli altri governi combattenti. Tuttavia, la banca centrale americana di recente istituzione, il Federal Reserve System, finì per stampare una nuova quantità di moneta pari a circa il 40% delle spese di guerra dell’amministrazione Woodrow Wilson.

L’inflazione dei prezzi si verificò in tutti i Paesi in guerra, ma in tempo di guerra i suoi effetti vennero nascosti attraverso sistemi di controllo dei salari e dei prezzi. A guerra finita, in paesi come la Germania e l’Austria si verificarono catastrofiche iperinflazioni. Negli anni Venti ci furono timidi tentativi di “ritorno” al gold standard sia nelle nazioni vincitrici che in quelle sconfitte, ma non erano affatto simili ai sistemi monetari che prevalevano prima del 1914. In breve tempo, dopo l’inizio della Grande Depressione nel 1929-1930, tutti i principali Paesi del mondo avevano abbandonato, di diritto o di fatto, il gold standard per dare ai governi la possibilità discrezionale di finanziare i crescenti deficit di bilancio per “combattere” la depressione.

L’economia keynesiana razionalizzava la spesa in deficit senza limiti

In America, dopo il 1933, le politiche del New Deal di Franklin D. Roosevelt inclusero la confisca dell’oro dei cittadini, dando in cambio banconote di carta. deprezzate della Federal Reserve, per facilitare il finanziamento dei deficit di bilancio. La “Fed” creò poi quantità ancora maggiori di denaro per coprire le spese del governo degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, alla fine della guerra, nel 1945, l’economia keynesiana detenevaormai in America e nella maggior parte dell’Europauna posizione di quasi monopolio nel campo delle idee di politica monetaria e fiscale.

In “Democracy in Deficit” (1977), James M. Buchanan (1919-2013) e Richard E. Wagner hanno sostenuto che nel XIX secolo la norma della politica fiscale era il pareggio di bilancio. Quando si verificavano emergenze nazionali occasionali (di solito guerre), poteva essere necessario ricorrere a prestiti pubblici per finanziare costi bellici imprevisti, ma quando la crisi passava, ci si aspettava che il governo realizzasse avanzi di bilancio per ripagare qualsiasi debito accumulato. La regola del pareggio di bilancio annuale assicurava la trasparenza politica della spesa pubblica; chi proponeva programmi governativi nuovi o ampliati doveva spiegare quanto sarebbero costati e come sarebbero stati raccolti i soldi delle tasse per pagarli e, quindi, su chi sarebbe ricaduta l’”incidenza fiscale”. I costi fiscali di qualsiasi azione governativa erano strettamente legati ai presunti “benefici” previsti per ciò che i politici volevano fare con i “soldi degli altri”.

Ma John Maynard Keynes, ne “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936), gettò a mare tutto questo. Sostenne che doveva essere responsabilità del governo la “macro”-gestione dell’economia per garantire livelli mirati di occupazione aggregata, produzione e livelli generali dei prezzi. Chi è al governo doveva avere la discrezionalità di gestire la politica monetaria e fiscale per fare i necessari aggiustamenti per mantenere l’economia in equilibrio. I bilanci pubblici dovevano essere bilanciati non su base annuale, ma nel corso delle fasi del ciclo economico, con disavanzi negli “anni cattivi” di recessione e avanzi negli “anni buoni” di inflazione.

Il problema pratico è che, una volta messi da parte i vincoli istituzionali del gold standard e della regola del pareggio di bilancio, gli incentivi politici e gli interessi dei politici che vogliono essere eletti o rieletti e dei gruppi di interesse che desiderano ottenere dal governo dei vantaggi offrendo ai politici contributi per le campagne elettorali e voti per le elezioni hanno aperto le porte a una spesa in deficit senza fine, anno dopo anno, indipendentemente dal fatto che si tratti di “tempi buoni” o “tempi cattivi”. I “benefici” della spesa pubblica hanno potuto essere estesi in lungo e in largo con denaro preso in prestito nascondendo il vero costo di quanto veniva fatto, e la Federal Reserve ha reso tutto molto più facile ed economico per il governo “monetizzando” il debito attraverso l’espansione monetaria.

I banchieri centrali come pianificatori centrali monetari

Allo stesso tempo, l’economia keynesiana e le prospettive politiche ad essa collegate hanno coltivato la mentalità dell’ingegneria sociale secondo cui è nelle conoscenze, nella saggezza e nella capacità degli “esperti” governativi pianificare la direzione e la forma di un’intera economia attraverso i giusti strumenti monetari e fiscali nelle mani di coloro che si presume siano qualificati per tirare le leve fiscali e monetarie. Coloro che supervisionano la Federal Reserve sono, di fatto, pianificatori centrali monetari.

Il Consiglio dei Governatori della Fed e tutti coloro che lavorano con loro nella banca centrale americana non considerano la moneta, il credito e i tassi d’interesse come aspetti dell’ordine competitivo originati dal, e basati sul, mercato, all’interno di un sistema finanziario che dovrebbe essere l’istituzione intermediaria per coordinare i piani e le azioni dei risparmiatori e degli investitori. No, li considerano “strumenti” di politica attiva da usare e manipolare come parte di un piano per dirigere e modellare l’economia nel suo complesso. E come tutte le forme di pianificazione centrale, anche questa si è sempre rivelata un disastroso fallimento.

All’inizio del XXI secolo, il Consiglio dei Governatori della Federal Reserve temeva che il Paese potesse trovarsi di fronte a un “pericoloso” periodo di – oh, no! – deflazione dei prezzi. Così, tra il 2003 e il 2008, è stato aperto a tutta forza il rubinetto monetario, con un aumento del 50% dell’offerta di moneta (M-2) che ha spinto i tassi d’interesse reali nella fascia negativa (se corretti per l’inflazione dei prezzi), favorendo un boom degli investimenti e facilitando una bolla immobiliare insostenibile che è crollata nel 2008-2010.

A ciò ha fatto seguito, per i successivi 10 anni, una nuova era di “quantitative easing”, un termine di fantasia per indicare l’acquisto da parte della Federal Reserve di un numero ancora maggiore di titoli di debito pubblico, oltre che di mutui casa traballanti e di una serie di altre attività finanziarie; il risultato è stato che la massa monetaria è triplicata nel corso di quel decennio, dal 2010 al 2020. Poi, quando la crisi del coronavirus ha scatenato il panico politico all’inizio del 2020 e i governi di tutto il mondo hanno seguito il modello della Cina comunista, imponendo la chiusura della produzione e del commercio al dettaglio, con restrizioni alla spesa dei consumatori e l’ordine di restare a casa, le economie del mondo sono crollate con diversi gradi di gravità.

Follia monetaria durante il COVID e oltre

Solo tra il 2020 e il 2022, l’offerta di moneta è aumentata drammaticamente del 50% in un periodo di 24 mesi, consentendo al governo federale di spendere ancora più trilioni di dollari presi in prestito per “salvare” l’economia dal massiccio sconvolgimento sociale ed economico creato dalle sue stesse politiche contro il coronavirus. Ora, che finalmente le sue stesse politiche monetarie portano al recente aumento dei prezzi, i pianificatori centrali della Federal Reserve sono “scioccati, assolutamente scioccati” nel trovarsi di fronte a un’inflazione dei prezzi che, a loro dire, non si sarebbe verificata o sarebbe stata solo “transitoria” per qualche mese.

Allo stesso tempo, qual è la loro risposta alla nuova “crisi inflazionistica”? Ci dicono di non preoccuparci perché conoscono di quanto manipolare i tassi di interesse verso l’alto per alleviare l’aumento dei prezzi, frenando la spesa e i prestiti ma, miracolosamente, senza spingere l’economia in una recessione. Quando probabilmente falliranno in questo intento, la loro risposta quasi inevitabile sarà: “Non preoccupatevi, abbiamo imparato nuove e importanti lezioni; potete fidarvi che la prossima volta faremo le cose per bene”.

Il problema fondamentale è che non ci potrà essere una “prossima volta” di successo. Uno dei motivi è che finché ci sarà una banca centrale, essa sarà soggetta a pressioni politiche dirette e indirette. In qualche modo dovrà pur finanziare i disavanzi di bilancio, che ormai ammontano a 1.000 miliardi di dollari l’anno; in qualche modo dovrà pur garantire che i tassi di interesse che il governo deve pagare per il denaro preso in prestito siano mantenuti ai livelli più bassi possibili e manipolati; in qualche modo dovrà pur assicurarsi che l’economia non precipiti in un’altra Grande Depressione, con tutte le conseguenti ricadute politiche su coloro che ricoprono alte cariche pubbliche.

La Federal Reserve e il suo consiglio dei governatori saranno chiamati a intervenire. Non dimentichiamo che i membri del consiglio sono nominati dal presidente e confermati dal Senato, proprio come un ambasciatore in un Paese straniero. Le persone nominate e approvate saranno sempre quelle di cui ci si può fidare che faranno “la cosa giusta” dal punto di vista politico. Quando, non molto tempo fa, un noto sostenitore del gold standard è stato proposto per un posto nel consiglio della Fed, è stato subito ridicolizzato e condannato dal Congresso e dai media come persona non qualificata per una posizione così importante; dopo tutto, avrebbe potuto cercare di chiudere il rubinetto monetario!

Il controllo governativo del denaro mina l’economia libera

Mentre era in esilio in America durante la Seconda guerra mondiale, l’economista tedesco Gustav Stolper (1888-1947) pubblicò il libro “Quest’epoca di favole” (1942). In cui sottolineava che:

Difficilmente i sostenitori del libero capitalismo si rendono conto di quanto il loro ideale sia stato completamente vanificato nel momento in cui lo Stato ha assunto il controllo del sistema monetario. Oggi c’è solo un importante teorico liberale abbastanza coerente da sostenere la libera e incontrollata concorrenza tra le banche nella creazione di moneta, [Ludwig von] Mises…. Tuttavia, senza di essa l’ideale di un’economia libera dallo Stato crolla. Un capitalismo “libero” in cui il governo è responsabile del denaro e del credito ha perso la sua innocenza. Da quel momento in poi non è più una questione di principio, ma di convenienza, fino a che punto si vuole o si permette che l’interferenza governativa si spinga. Il controllo del denaro è il supremo e più completo di tutti i controlli governativi, a parte l’esproprio. (p. 59)
I cicli di boom e bust, di inflazione e recessione, e l’uso politico della creazione di moneta per soddisfare le esigenze di spesa a deficit dei governi non saranno mai interrotti in modo efficace e permanente fino a quando le banche centrali non saranno messe fuori attività. Le questioni monetarie devono essere completamente restituite al processo di mercato della domanda e dell’offerta e della competizione. Il “mercato” – che significa tutta la moltitudine di individui che comprano e vendono, producono e consumano in modo interattivo nella società – dovrebbe decidere quali merci o altre sostanze sembrano più utili ed efficaci come mezzo (o mezzi) di scambio.

Il governo non dovrebbe avere nulla a che fare con ciò che viene usato come denaro, e il sistema legale dovrebbe riconoscere e applicare tutti i contratti stipulati liberamente e onestamente, compresi quelli che riguardano il denaro con cui si è concordato di effettuare gli scambi. A nessuna moneta, come le banconote della Federal Reserve, dovrebbe essere attribuito uno status speciale, come avviene con le leggi sul corso legale.

Il denaro, dopo tutto, non è stato originariamente una creazione dello Stato. È emerso “spontaneamente” dagli usi e dai benefici scoperti dagli operatori di mercato che hanno riconosciuto, apprezzato e trovato conveniente adottare una certa come mezzo di scambio per superare le barriere che ostacolavano il successo del commercio quando vigeva il baratto (lo scambio diretto di una merce con un’altra). Fin dall’antichità, chi detiene l’autorità politica ha trovato vantaggioso affermare il proprio controllo sul sistema monetario, perché qualsiasi merce venga utilizzata come denaro è la merce con cui viene acquistato tutto il resto desiderato dai consumatori. Quanto è meglio svilire le monete o stampare cartamoneta per avere accesso a tutti i beni disponibili sul mercato senza dover suscitare il risentimento e la resistenza di coloro che altrimenti dovrebbero essere tassati più direttamente perché il governo abbia accesso ai fondi che vuole spendere.

Banche centrali e ciclo economico

La banca centrale è anche il canale istituzionale attraverso il quale si creano i boom e le crisi del ciclo economico. Dopo che il governo federale ha emesso strumenti di debito per finanziare i suoi prestiti sui mercati finanziari, la Federal Reserve li acquista nel cosiddetto “mercato secondario”. La Federal Reserve crea denaro per acquistarli “dal nulla”, attraverso un clic del mouse sullo schermo di un computer. Questo denaro entra quindi nel sistema bancario e le banche che lo ricevono, appena creato, sotto forma di deposito, si ritrovano con “riserve in eccesso” disponibili per la concessione di prestiti. E nuovi mutuatari sono attratti dai tassi di interesse più bassi ai quali queste nuove somme possono essere prestate per investimenti e altri usi.

Da questo punto di “iniezione”, il nuovo denaro viene speso in primo luogo da coloro che hanno contratto questi ulteriori prestiti; poi passa a un altro gruppo di mani, quelle di coloro che hanno venduto beni e servizi a quei mutuatari. Da questo secondo gruppo quando viene speso il denaro passa a un terzo gruppo. E così via. Come un sassolino lasciato cadere in uno stagno, dal punto epicentrale in cui il denaro entra nell’economia, si creano ondate di domanda, prima per una serie di beni desiderati, poi per un’altra, poi per un’altra ancora, in una sequenza modellata.

In questo processo di aumento generale dei prezzi, la struttura dei prezzi e dei salari relativi viene distorta, con un errato orientamento della domanda e dell’offerta e una cattiva allocazione delle risorse, compresa la manodopera. La manipolazione dei tassi d’interesse determina un potenziale squilibrio tra i risparmi effettivi e disponibili nell’economia e gli investimenti intrapresi; ciò determina un boom insostenibile degli investimenti, delle abitazioni e dei mercati azionari. Quando alla fine arriva la recessione, tutti i malinvestimenti e gli errori di destinazione delle risorse, del capitale e del lavoro che ne sono derivati diventano evidenti. La recessione è in realtà la fase del processo di ripresa del ciclo economico, quando i prezzi, la domanda e l’offerta, l’uso delle risorse e del lavoro vengono riaggiustati e riequilibrati per ripristinare le condizioni di mercato per un sano ritorno all’occupazione reale e sostenibile, agli investimenti e alla crescita economica a lungo termine.

Libertà monetaria e free banking competitivo

Non c’è modo di sapere quali dovrebbero essere i tassi d’interesse di mercato per coordinare e bilanciare efficacemente i risparmi effettivi e le richieste di prestito, se non lasciando che sia la concorrenza sui mercati finanziari a scoprire quali sono i tassi d’interesse appropriati e come dovrebbero cambiare in circostanze di mercato sempre mutevoli.

Non c’è modo di sapere quali materie prime debbano essere utilizzate come moneta, se non permettendo ai partecipanti al mercato di scegliere le monete che trovano più vantaggiose nelle transazioni di mercato di vario tipo che intraprendono. Non c’è modo di sapere pienamente come le istituzioni finanziarie dovrebbero funzionare in termini di valute bancarie individuali, o le riserve di contante che le banche potrebbero trovare opportuno e saggio detenere a fronte di passività bancarie in sospeso, se non scoprendo queste cose attraverso l’attività di un settore bancario libero, non regolamentato e competitivo, non più sotto il controllo normativo o l’influenza politica del governo.

La pianificazione centrale monetaria non è più desiderabile o praticabile di qualsiasi altra forma di pianificazione centrale governativa. L’obiettivo istituzionale, in altre parole, dovrebbe essere la fine della politica monetaria attraverso l’abolizione della banca centrale. L’ideale, quindi, è la libertà monetaria. Senza di essa, la possibilità e la sostenibilità a lungo termine di una società di mercato veramente libera potrebbero non essere pienamente possibili.

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