
La grande finzione della proprietà pubblica

Nell’enciclica Laudato si’ papa Francesco I ha messo sotto accusa la proprietà privata, scrivendo che la tradizione cristiana «non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile quel diritto». La storia tuttavia ci insegna che l’abolizione o la limitazione della proprietà privata ha sempre avuto effetti rovinosi per la società. La collettivizzazione della proprietà, oltre a produrre disastri economici, ha rappresentato il principale strumento di dominio e di arricchimento della classe politico-burocratica a danno del resto della popolazione.
Il concetto di “proprietà pubblica” o “collettiva” nasconde infatti un imbroglio linguistico, dato che “pubblico” e “collettivo” sono concetti astratti, o metafore, e non esistono in realtà. Solo gli individui vivono, pensano, agiscono, possiedono e hanno bisogni. Dato che in ultima analisi sono sempre gli individui singoli ad appropriarsi di qualcosa, la proprietà pubblica non esiste: tutta la proprietà è sempre e solo privata. Aldilà delle denominazioni formali, il proprietario reale di un bene è colui che decide come utilizzarlo e che si appropria dei suoi frutti.
I beni in “proprietà pubblica” sono allora, di fatto, in proprietà privata della classe politico-burocratica, che decide come usarli e che si appropria dei benefici della loro amministrazione sotto forma di stipendi, poltrone, prebende. Nei regimi socialisti gli abitanti si erano resi conto di non essere proprietari di tutto, come diceva l’ideologia ufficiale, ma proprietari di niente; e che i veri proprietari delle ricchezze del paese erano i membri della nomenklatura, uomini molto ricchi che non avevano bisogno di lavorare. La collettivizzazione aveva infatti generato una potentissima “nuova classe”, né borghese né proletaria ma burocratica e parassitaria, che gestiva l’intera ricchezza del paese come fosse propria.
Anche nei nostri sistemi ad economia mista il fatto che nessuno possa vendere la propria “quota” delle ferrovie statali, delle aziende sanitarie o della scuola pubblica, né decidere come usarla, dimostra che in verità il cittadino è un proprietario meramente nominale, con il solo dovere di pagare i debiti di gestione accumulati dai membri del ceto politico-burocratico, che sono i reali proprietari della cosa pubblica. L’ennesima conferma si è avuta con il referendum sull’acqua “pubblica” di qualche anno fa, nel quale i promotori riuscirono a convincere l’elettorato che solo l’acqua pubblica è “di tutti”. Oggi molti cittadini si sono accorti, delusi e sbigottiti, che la vittoria del Sì è stata un enorme regalo fatto alla casta: mentre gli amministratori delle società pubbliche che gestiscono gli acquedotti intascano appannaggi milionari, i cittadini (i veri “proprietari” secondo l’ideologia statalista) subiscono i disservizi e gli aumenti vertiginosi delle bollette.
Una caratteristica peculiare della proprietà pubblica è quella di essere posseduta dai politici e burocrati non individualmente, ma collettivamente come classe. Per poter godere dei propri possedimenti sono però costretti a ricorrere all’occultamento e all’inganno. I politici e i burocrati, infatti, negano con forza di essere i reali proprietari dei beni dello Stato. I loro titoli, del resto, non risultano certamente registrati presso nessun notaio o nessun catasto. Mentre i proprietari privati fanno bella mostra dei loro possedimenti, i politici e i burocrati sono obbligati a consumare la rendita della proprietà pubblica in buona parte di nascosto, evitando ogni trasparenza sui bilanci pubblici e mantenendo segreta l’entità dei propri stipendi e benefici accessori.
L’economia gestita collettivamente dalla burocrazia conduce però inevitabilmente a sprechi di proporzioni colossali, perché la proprietà “di tutti” sembra non appartenere a nessuno. I politici e i burocrati trattano la proprietà statale come propria, ma nello stesso tempo la sperperano come se fosse di altri. Nonostante l’economia statale sia la più rovinosa della storia, la casta statale non può rinunciarvi senza minare se stessa, perché eliminare la proprietà pubblica attraverso la privatizzazione equivale a spogliare i politici e i burocrati dei loro titoli e ad abolirli come classe. Per questa ragione il ceto politico-burocratico preferisce di gran lunga la rovina economica del paese alla perdita della proprietà statale. Un tipico esempio fu la collettivizzazione delle terre in Urss, catastrofica dal punto di vista delle perdite umane e produttive, ma utilissima per il consolidamento del potere del partito. I liberali hanno dunque il dovere di smascherare gli inganni della fraseologia socialista con cui la burocrazia nasconde i propri possedimenti illegittimi sotto la veste della “proprietà pubblica”.
Tratto dal n. 4/2015 di Liber@mente, rivista liberale pubblicata dalla Fondazione Scoppa: http://www.fondazionescoppa.it/la-rivista.html
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Editore (Leonardo Facco Editore e Tramedoro), scrittore, saggista, studioso di Liberalismo e Scuola Austriaca di Economia.