
“Aritmetica politica”, e di Stato, o libera ricerca scientifica?

Due frasi – tra le altre – hanno segnato il dibattito pubblico di queste ultime settimane.
La prima è di Roberto Speranza, che dinanzi alle indagini che l’hanno investito ha provato a difendersi ricordando che quando arrivò al ministero della Sanità non trovò il “manuale di istruzioni”. Come lui stesso ha detto, il piano “era datato e non costruito specificamente su un coronavirus, ma su un virus antinfluenzale”. Mancava, insomma, la soluzione antipandemica preconfezionata: lo strumento burocratico che il direttore generale del ministero avrebbe dovuto predisporre e progressivamente aggiornare (e che invece era fermo al 2006).
La seconda dichiarazione è di Roberto Burioni, ormai in evidente imbarazzo dopo che ognuno dei punti fermi della propaganda filo-governativa da lui condotta negli ultimi tre anni (su lockdown, mascherine, terapie, vaccini) è sempre meno convincente alla luce delle ultime ricerche. Sotto attacco egli s’è difeso in questo modo: “qualunque affermazione scientifica si basa sui dati disponibili. Se i dati sono incompleti o addirittura falsi è ovvio che l’affermazione stessa può risultare scorretta o falsa, ma la colpa è di chi ha omesso o falsificato i dati, non di chi ha fatto l’affermazione”.
Il combinato disposto delle tesi dei due Roberto che ci hanno tanto maltrattato in questi anni la dice lunga sulla nostra società, sul disagio della scienza contemporanea e sulla necessità di costruire spazi per una ricerca indipendente dal potere e per istituti privati d’insegnamento universitario d’impostazione libertaria.
In quella sua fantozziana autodifesa, in effetti, Burioni ci appare come un burocrate della scienza che si limita a combinare input di cui non sarebbe chiamato a verificare l’attendibilità. Il problema, però, va ben al di là del soggetto in questione. Non c’è dubbio, infatti, che molta della ricerca contemporanea non soltanto si basa – com’è normale che sia – sulla statistica, ma per giunta su una statistica sempre più fedele alla sua denominazione: dove i dati sono raccolti, gestiti ed elaborati da apparati di Stato.
È raro che un epidemiologo non faccia riferimento, nelle sue ricerche, ai dati resi dell’Organizzazione mondiale della sanità, la quale a sua volta raccoglie i dati nazionali. Tutto questo castello di cifre rese pubbliche a getto continuo, allora, poggia su colonne d’argilla, perché l’attendibilità delle informazioni diffuse dagli Stati è modesta. Un serio analista di questioni militari nella primavera del 1945 avrebbe preso sul serio le dichiarazioni di Adolf Hitler sulle armi segrete (Wunderwaffen)? Uno studioso di economia avrebbe potuto credere ai dati diffusi da Nikita Krusciov sulla produzione industriale sovietica? Un commentatore politico avrebbe potuto credere, quando Capitol Hill è stata invasa da quattro sciamannati, alla versione ufficiale che immaginava una sorta di tentativo di golpe nel cuore di Washington DC?
Non a caso, gli studiosi più seri s’interrogano di continuo sulle condizioni in cui i dati sono raccolti, sugli interessi in gioco (che possono potenzialmente sviare qualsiasi ricerca), sui fattori di disturbo di natura tecnico-operativa. Bisogna essere consapevoli che nella maggior parte dei sistemi politici contemporanei una delle prime nomine compiute da un nuovo premier riguarda proprio l’istituto nazionale di statistica, esattamente come negli Stati Uniti il neo-presidente subito individua chi potrà mandare alla Corte Suprema non appena si libererà un posto (per decesso o dimissioni).
Non è un caso che quando muoveva i suoi primi passi la statistica venne chiamata “aritmetica politica”, ma sarebbe ora di affrancare la scienza da questo spirito burocratico che pende dalle labbra dei funzionari di Stato, che non ne contesta i dati (con la scusa che ognuno dovrebbe fare il suo lavoro!) e pretende di limitarsi a elaborare paginate di cifre e tabelle messe assieme utilizzando metodologie spesso deformate ad hoc.
Uno degli migliori epistemologi in circolazione, John Ioannidis, fin dagli inizi della crisi pandemica richiamò l’attenzione proprio sulla mancanza di dati affidabili. Fu messo al bando e marginalizzato un po’ da tutti: compresa la Rai (che prima l’intervistò e poi ne manipolò le affermazioni). Perché? Aveva avanzato il dubbio che i dati “ufficiali”, proprio quelli forniti dai funzionari pubblici, potessero essere distorti e falsi, e quindi tali da farci arrivare a conseguenze erronee. È come se avesse mandato un segnale ai tanti Burioni in circolazione, ma purtroppo pochi l’hanno ascoltato. Di questo non c’è da stupirsi, dal momento che per lo scienziato medio di un’università pubblica “lo Stato siamo noi e la statistica è verità”.
Bisognerà lavorare, allora, anche per una statistica ben differente; e magari anche con un nome meno sgradevole.