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Non usiamo il libertarismo come scusa per continuare a discriminare

Non usiamo il libertarismo come scusa per continuare a discriminare

Discutere di una legge, della sua legittimità, della sua applicazione, mi sembra molto poco libertario. Iniziamo col dire che forse il piano della critica dovrebbe essere trasferito su altri livelli, che sono l’etica, la filosofia, la politica. A questo proposito ha davvero poco senso discutere nel merito della proposta di legge Zan. L’unico commento coerente con una visione libertaria dovrebbe essere diviso in due osservazioni: (1) essendo qualunque legge illegittima, anche la legge Zan è illegittima; e (2) il contenuto della legge Zan è sacrosanto, da difendere e da sostenere.

Riguardo al primo punto, possiamo presentare lo schema del ragionamento nel modo seguente:

(a) Il sistema di leggi statali è un prodotto di un sistema fondato su un’autorità illegittima (nota: si sta parlando qui solo delle leggi in un sistema statale).

(b) Se il sistema di leggi statali è un prodotto di un sistema fondato su un’autorità illegittima, allora ogni legge particolare è illegittima.

Quindi:

(c) Ogni legge particolare è illegittima.

(d) La legge Zan è una legge particolare.

Quindi:

(e) La legge Zan è illegittima.

Il punto (a) è dimostrato ampiamente da Huemer[1], per cui userò questa premessa come assunzione. (b) è un argomento a fortiori: è evidente che se qualcosa di così generale come il sistema stesso è illegittimo, allora lo sarà anche una qualunque legge di questo sistema. (c) segue la più semplice regola di inferenza. (c), (d) e (e) costituiscono uno schema palese.

Riguardo al secondo punto, invece, la discussione dovrà essere più distesa e informale. Intanto cerchiamo, sommariamente, di comprendere il contenuto dei tentativi di modifica di leggi preesistenti contro la discriminazione. Per l’obiettivo di questo articolo ci basta indicare i temi: omofobia, discriminazione di genere, misoginia, annessi. L’obiettivo è di ridurre le violenze motivate dal pregiudizio, l’intolleranza e l’invidia di genere. All’interno del pregiudizio rientrano tutte le motivazioni irrazionali che siano culturali, religiose o legate a una visione estemporanea. Ad esempio il 33,5% degli uomini intervistati in una recente indagine dell’Istat motiva la violenza sulle donne per motivi religiosi, il 70,4% di loro di loro per via di opinioni sulla donna come oggetto.[2] A ben vedere anche l’intolleranza e l’invidia sono moventi irrazionali, ma hanno un peso a se stante che mi preme sottolineare: l’intolleranza e l’invidia vanno di pari passo; infatti il 55,2% degli uomini crede che alla base delle violenze ci sia il fatto che gli uomini non sopportino l’emancipazione femminile; il 68,5% degli intervistati ritiene che l’uomo abbia bisogno di sentirsi superiore (le percentuali che condividono questa opinione tra le donne è notevolmente più alta: rispettivamente 69,9% e 81,3% per le due motivazioni date). Questo per ciò che riguarda la violenza di genere nei confronti della donna. In generale, al di là delle opinioni, è un fatto che la violenza di genere non stia calando. Riguardo la discriminazione verso i gruppi LGBT+[3] si hanno oltre a un aumento della violenza fisica, anche un aumento dell’esclusione sociale, soprattutto nei ragazzi. Come in altre occasioni e come già ho fatto notare, l’errore di chi critica leggi del genere nasce dalla seguente affermazione: “Questo genere di leggi sono altrettanto discriminatorie poiché mantengono la divisione tra un noi e un loro ed essendo frutto di ragionamenti collettivisti non fanno nulla per eliminare la discriminazione tra gruppi”. Un esempio recente è uscito su The Italian Conservative. Ma questa considerazione è del tutto fuori fuoco. Infatti, si fa un appunto corretto (la legge antidiscriminazione segue logiche collettiviste) pensando che la sorgente di tali criticità sia nella legge stessa e non in ciò che la genera. La legge, infatti, si pone come risposta a un precedente atteggiamento collettivista e tribale, che sia il razzismo, l’omofobia, l’intolleranza religiosa, ecc. Sarebbe come dire: difendersi usando violenza contro un aggressore violento è una forma di violenza equiparabile alla violenza dell’aggressore. È ovvio che questo ragionamento non abbia senso e sfidi anche il senso comune. Di fronte ad atteggiamenti discriminatori dovuti a questioni di gruppi contrapposti (per via di ciò che viene chiamato “razza”, per via di differenti confessioni religiose, orientamenti sessuali, idee politiche, ecc) la risposta deve essere (i) efficace, (ii) tempestiva (iii) proporzionata. Per essere efficace deve essere contestualizzata, ovvero deve avere la stessa forza, o una forza maggiore, di quella dell’avversario (questo non vuol dire che debba essere altrettanto violenta, ma che deve essere altrettanto incisiva). Una risposta collettivista, oggi, è più efficace di qualunque risposta individuale. Una soluzione deve essere tempestiva, inoltre, proprio perché se il problema è reale sarebbe immorale lasciare che continui, mentre si ragiona al bar sulle possibili soluzioni. Serve una diga che faccia da argine. Ad oggi, come espresso da (i) la diga più efficace è una risposta collettivista. Infine, deve essere proporzionata. Per essere proporzionata deve essere almeno paragonabile al grado di efficace nel presente (i + ii) della violenza che si vuole arginare. Quindi la legge Zan, nello specifico, e ogni altra legge antidiscriminazione non possono essere oggetto di critiche sul piano dei contenuti. Sono, appunto, contenuti basati sui fatti e del tutto difendibili. In una società razionale il problema verrebbe affrontato focalizzandosi sulla violenza e non sulla vittima, poiché non conta essere uomo o donna o trans (…) per essere considerato. Per esempio, sono state rilevate delle analogie (anche a livello quantitativo) tra violenze e abusi subiti da uomini e da donne da soggetti del sesso opposto. Il problema, dunque, sarebbe quello di eliminare questa violenza. Ma questo discorso vale in condizioni ideali, dunque vale a patto che ci siano determinate qualità che la nostra società attualmente non possiede. Dunque è del tutto accettabile difendere le analisi collettiviste, in questi casi reali e contingenti.

Un’altra critica che viene spesso mossa è più generale e concerne proprio l’etica: è il diritto a discriminare. Non voglio approfondire le varie sfaccettature delle varie posizioni che orbitano intorno a questo concetto. Basti dire che, in generale, si crede che il diritto di discriminare sia parte del più amplio diritto di parola. E, credo, che in effetti sia così. Non ho alcun motivo per dire che la discriminazione non sia un’opinione come altre. Ogni opinione ha ricadute e conseguenza, non solo le opinioni discriminatorie. Se per esempio ora scendessi in piazza e chiedessi più giustizia per i richiedenti asilo che stanno lavorando alla manutenzione delle strade sottopagati dal governo, potrebbero tranquillamente seguire tumulti e proteste, perfettamente legittimi. Eppure, anche in quei casi, qualcuno che è innocente potrebbe finirci di mezzo (una protesta violenta può investire fin troppe emozioni legate anche all’invidia sociale e alla voglia di vendetta, ma non tutti sono colpevoli e non tutti posso essere dei bersagli – ma non è questo il tema). Quindi nulla contro l’idea che discriminare faccia parte del diritto di parole. Il problema con chi sostiene questo diritto è, invece logico. È del tutto incoerente criticare il collettivismo in ogni sua forma, se poi si difende la libertà di discriminare! L’unica discriminazione sensata e ragionevole è quella contro gli individui specifici (per esempio scelgo di cacciare dal mio locale il signor X che ieri mi ha distrutto la sala o ha acceso una rissa perché ubriaco). Qualunque forma di comportamento tribale (razzista, omofobo, più in generale maschilista) non ha minimamente modo di essere integrato in una prospettiva libertaria. Chi lo fa (come di recente sembra suggerirci Hoppe, che per fortuna è stato criticato ampliamente, per esempio qui) palesemente si contraddice (se libertario) oppure dimostra di non essere un libertario coerente. Spesso, in effetti, il libertarismo viene inteso come un’arma strategicamente più apprezzabile ai più, per giustificare invece posizioni di estrema destra e/o intolleranti (un caso è questo).

Per chiudere, dunque, non esiste nessun motivo (libertario) per rifiutare i contenuti dei provvedimenti antidiscriminazione. Ciò che invece dovrebbe essere puntualizzato è l’illegittimità in generale della legge, ma in questo sistema, in attesa di cambiare le regole del gioco, bisogna continuare comunque a giocare e non nascondersi dietro una presunta e quanto mai confutabile critica al collettivismo di queste risposte. Ricordiamoci che sono leggi ad essere ingiuste, non sempre i loro contenuti (basti pensare alla legge contro il furto o l’omicidio, che nessun si sognerebbe di criticare sul piano dei contenuti). Quindi facciamo chiarezza, prima di tutto tra noi e le nostre idee, e condanniamo ogni tipo di violenza reale, senza nasconderci dietro una qualunque scusa retrograda e bigotta, mascherata a difesa dell’individualismo metodologico.

[1] HUEMER, Michael (2013), The Problem of Political Authority: An Examination of the Right to Coerce and the Duty to Obey, Palgrave Macmillan.

[2] A dire il vero queste percentuali riguardano la percentuale di maschi intervistati, mentre le donne danno in generale più peso alle motivazioni che ho presentato e presenterò fra poco (per esempio l’84,9% delle donne crede che l’uomo che usa violenza lo faccia perché le considera oggetti).

[3] Rimando genericamente alla ricerca nel sito della EU Commission perché le ricerche sono varie e fa sempre bene imparare farle da soli.

Il barbiere di Hayek

by Riccardo Canaletti

Studia Philosophy and literature presso Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

 

Riccardo Canaletti

Coordina la sezione Filosofia

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  1. Una risposta (libertaria) alla considerazione del libertarismo come “scusa per discriminare”. – The Italian Conservative - […] mentre ero imbottigliato in un ingorgo, mi è capitato di leggere una risposta all’articolo “incriminato” (si fa per dire)…

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