
Piccola storia del PCI

di Fabio Massimo Nicosia
Mentre l’intellighenzia discute di come si possa celebrare la giornata dell’abbraccio rispettando il distanziamento asociale (spoiler, da dietro), continua l’invasione dei metacorpi comunisti che festeggiano il 1921.
Terracini disse che aveva cambiato idea e che aveva ragione Turati, ma leggete Turati, che per essere efficace parlò anche lui di comunismo e di anarchia, salvo che li poneva un attimino più in là nel tempo.
Vi ripeto il giudizio di Giorgio Galli: il PCd’I nacque per fare la rivoluzione a periodo rivoluzionario concluso e agevolò nei fatti l’avvento del fascismo. Che Gramsci stesso sottovalutava, visto che trovò tempo di farsi eleggere deputato (si veda il famoso intervento a difesa della Massoneria del 1925, anno in cui poi fu chiusa l’Unità).
Dopo di che, con lo stalinismo e Togliatti a Mosca, partì la campagna a favore dei rapporti con i “compagni in camicia nera”, che poi fu preludio alla condanna dei vari socialisti, socialdemocratici e liberalsocialisti come social fascisti, salvo poi seguire da parte comunista la politica dei fronti popolari.
La storia del Pci prosegue poi brillantemente in Catalogna con l’assassinio da parte di Vittorio Vidali di Camillo Berneri, chissà se il Pd rivendica continuità anche al riguardo.
Nel dopoguerra, con la svolta di Salerno, Togliatti diventa monarchico e badogliano, tanto per non farsi mancare niente, poi entra nei governi De Gasperi e successivamente trascina il povero Psiup di Nenni in una sconfitta storica, quella del frontismo, probabilmente voluta, perché gli accordi di Yalta davano l’Italia all’Occidente, stante direi anche la presenza del Papa.
Gli anni ’50 sono forse gli unici di vera opposizione del Pci, soprattutto, come si narra, degli operai “isolati nelle fabbriche”, salvo che il Pci stava facendo opposizione a un centrismo, che noi ricordiamo per il moralismo clericale, ma che dal punto di vista economico molti rimpiangono.
Negli anni ’60 il Pci fa opposizione al centro-sinistra, dopo che Nenni, con gli accordi di Pralognan, si era riavvicinato a Saragat e quindi dà vita ai governi appunto di centrosinistra.
Tuttavia lo scoppio del sessantotto e dell’autunno caldo non sono “merito” del Pci, ma di movimenti, anche sindacali, che già l’avevano scavalcato o abbandonato, e il Pci arranca facendo la predica, salvo poi cavalcare i fenomenti storici ex post come fa sempre.
Ad esempio, a metà degli anni ’70, quando in omaggio alla politica di Berlinguer del compromesso storico entra nella maggioranza con la Dc, facendosi forte del risultato delle elezioni del 1976, un aspetto che si manifesta forte, oltre alla sua ferma intransigenza nei confronti del Movimento del ’77, percepito come degenerazione diciannovista (viva) di quello del 1968, è la sua insofferenza verso i radicali pannelliani, che gli stavano facendo lo scherzo di dirsi più a sinistra di lui (in quanto all’opposizione del governo di Unità nazionale), da qui la scomunica di tutta la politica cosiddetta dei diritti civili (del resto il Pci era stato a lungo tiepido sul divorzio e contrario all’aborto per non rompere il “dialogo con le masse cattoliche”, ossia la Dc).
E tuttavia, dopo avere demonizzato i radicali, via via i post-comunisti si sono protesi a recuperarli a loro modo (con le varie Arci, gay, ambiente e altri cavoli, però anche caccia), che è il modo di trasformare la rivendicazione in piagnisteo omologato al regime, secondo la lucida profezia di Pasolini.
La sinistra fuxia nasce lì, mano mano che ai post-comunisti sfugge il contatto con i movimenti di rilevanza economico-sociale (per la banale ragione che sono schierati dall’altra parte), ecco il recupero manipolato del radicalismo pannelliano: naturalmente nella versione post-comunista diventa una merda (vedi legge sull’omofobia): ora sono tutti liberal, però il comunismo gli piace ancora.
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