
La morte del giornalismo

Qualche riflessione sulle televisioni che ieri si sono rifiutate di trasmettere il discorso di Trump.
Sul piano della legalità e della legittimità, non ho nulla da dire: sono televisioni private e possono fare quel che vogliono delle loro trasmissioni. Detto questo, da un punto di vista morale e professionale, abbiamo assistito in diretta alla morte del giornalismo per come lo abbiamo finora conosciuto.
Avete capito bene: la morte del giornalismo.
Trump stava dicendo cose di interesse pubblico, da persona pubblica quale è (presidente degli Usa, scusa se è poco). Togliergli la parola mentre parlava è, in sé, un atto che va contro ogni regola del giornalismo. Trump è stato “zittito” da quelle televisioni perché, secondo loro, diceva il falso. Ora spiegatemi perché, allora, avete trasmesso anche in versione integrale e tradotte le conferenze stampa di Bin Laden, di Abu Bakhr al Baghdadi e di Saddam Hussein, quando sapevate benissimo che stavano affermando tantissime cose false.
Se il mestiere del giornalista è quello di riferire solo quel che una persona pubblica sta dicendo (i commenti, semmai, li fate dopo che ha finito di parlare), allora ieri avete sbagliato tutto. Se invece ritenete che, d’ora in avanti, il giornalista debba riportare solo le affermazioni “vere”, allora avete sbagliato mestiere. Un giudice, forse, può ricostruire cosa sia la verità, o un prete se si parla di verità rivelata, ma non un giornalista.
Quindi ieri è morto il giornalismo, i cosiddetti “colleghi” (ma chi vi conosce?) americani che hanno fatto questo scempio hanno passato il confine che c’è fra il giornalismo e la militanza politica. Sono diventati militanti, fra i peggiori fra l’altro. Perché anche giornalisti militanti seri, all’Unità, al Manifesto, su Radio Popolare, non censuravano i discorsi quando parlavano i leader democristiani, nemmeno negli anni di piombo. Un comportamento come quello che abbiamo visto ieri è da “Eskimo in redazione”, magari con la P-38 nel cassetto.
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