
Fatti e valori: il relativismo insidioso

Nel precedente articolo, in cui ho fornito una breve introduzione sul metodo linguistico e sul suo possibile utilizzo nei contesti dell’etica e della riflessione morale, ho accennato alla tematica della distinzione tra nozioni fattuali e valutative, la cosiddetta dicotomia fatti/valori. Nel corso del ventesimo secolo, questo argomento è stato motivo di un acceso dibattito tra accademici che, pur avendo raggiunto diversi traguardi tecnici che possono considerarsi acquisiti all’interno di alcune correnti filosofiche contemporanee (in primis quella analitica di cui si è già parlato), non può dirsi affatto risolto e anzi presenta diverse problematiche ancora aperte e ampiamente discusse. Ritengo che una comprensione almeno basilare di questo problema sia estremamente importante per evitare una forma particolarmente insidiosa di relativismo: l’idea secondo cui le nozioni morali (e non solo) sono puramente soggettive e non possono quindi essere discusse razionalmente.
Prima di tutto però, un po’ di storia. L’idea che vi sia una distinzione importante tra le affermazioni che constatano un fatto del mondo e quelle che esprimono una qualche forma di valutazione (morale, estetica eccetera) è piuttosto antica, e se ne possono probabilmente individuare – più o meno creativamente – numerosi esempi all’interno delle riflessioni dei più autorevoli pensatori della tradizione occidentale; tuttavia, secondo Hilary Putnam la formulazione più moderna e rigorosa della dicotomia fatti/valori può essere attribuita a David Hume (1711-1776). Secondo il pensatore scozzese, infatti, derivare una proposizione prescrittiva (cioè una frase in cui si fa uso del verbo ‘ought’ – ‘dovere’) da una descrittiva (vale a dire una che fa uso del verbo ‘is’ – essere – per informare circa le proprietà concrete del mondo e dei suoi oggetti) sarebbe una mossa logicamente illegittima: qualsiasi ragionamento che include un’inferenza di questo tipo dovrebbe allora essere considerato logicamente fallace e quindi scorretto.
Questa intuizione si è ben radicata nella tradizione occidentale e ha ispirato filosofi successivi a costruirne formulazioni tecnicamente più raffinate e complesse, che però non ritengo sia necessario prendere in considerazione in questa sede. La versione di Hume, per quanto non faccia uso del lessico tecnico del pensiero analitico contemporaneo, è già abbastanza precisa da un punto di vista formale: si circoscrivono due classi ben determinate di proposizioni di conoscenza (prescrittive e descrittive) e si argomenta che esse sono logicamente impermeabili l’una rispetto all’altra. Facciamo degli esempi, prendendo in considerazione due forme di disaccordo.
Supponiamo che due individui si trovino in disaccordo circa il contenuto di un bicchiere, uno pensa che sia stato riempito di acqua salata, l’altro di acqua dolce. Si tratta senza dubbio di un conflitto tra nozioni fattuali; i due individui sottoscrivono credenze confliggenti il cui oggetto è una caratteristica concreta del mondo dei fatti. Si nota immediatamente che questo tipo di disaccordo ha delle caratteristiche peculiari: è possibile raggiungere la convergenza (risolvere il conflitto) operando una verifica fattuale (assaggiando il contenuto del bicchiere, ad esempio) dell’oggetto del disaccordo, e non è possibile che le credenze discordanti dei due soggetti siano entrambe vere (anche se potrebbero essere entrambe false).
Ben diverso è il caso di un disaccordo tra giudizi di valore (etici, estetici eccetera – credenze che possono essere riformulate in forma prescrittiva). Uno dei due individui di cui sopra potrebbe (ragionevolmente) preferire il sapore dell’acqua dolce e l’altro (per qualche motivo) potrebbe apprezzare un pizzico di sale nelle sue bevande – si tratta di credenze valutative (si assegna un valore, positivo o negativo, a una proprietà reale del mondo dei fatti) che possono portare a formulare inferenze prescrittive (l’uomo dai gusti bizzarri potrebbe ad esempio richiedere che venga aggiunto del sale nel bicchiere). Si nota immediatamente che quanto avevamo constatato per i disaccordi fattuali non è più valido in questo caso: una verifica fattuale dei contenuti del bicchiere non porterebbe a una convergenza, e non sembra possibile confrontare due giudizi valutativi diversi (ed eventualmente confliggenti) assegnandovi valori di verità.
Quindi Hume ha ragione? Potrebbe non essere così semplice.
Le nozioni fattuali possono infatti comparire nelle discussioni circa la validità di giudizi estetici e morali come ragioni che spiegano o giustificano particolari credenze valutative. È perfettamente ragionevole per qualcuno spiegarmi che apprezza un determinato quadro perché la composizione è costruita intorno ai toni del rosso (una caratteristica reale del quadro): le nozioni descrittive e quelle valutative sono intrecciate quanto meno sul piano epistemologico, rispetto al modo in cui gli esseri umani si scambiano informazioni e condividono opinioni e conoscenze.
Mi soffermerò un’altra volta sul tema delle ragioni, un argomento tecnicamente molto complesso ma estremamente ricco e interessante; per adesso ci basti osservare come la proposta humeana, e ogni forma particolarmente dura di distinzione fatti/valori, abbia come conseguenza un tipo estremamente pericoloso di relativismo. Una separazione assoluta tra il linguaggio dei fatti e quello delle valutazioni (soprattutto morali) porterebbe all’esilio delle credenze etiche dall’ambito della razionalità, e ci renderebbe incapaci di spiegare in che senso e in che modo il nostro agire è moralmente retto; sopravviverebbe solo l’argomento della forza (e al massimo quello purtroppo molto più debole della compassione), il dispotismo di chiunque detenga il monopolio della violenza. È allora non solo necessario, ma anche desiderabile riconoscere che il linguaggio quantitativo e descrittivo dei fatti reali si intreccia continuamente e attivamente con le parole del bello, del giusto, e del sacro.

La Teiera Celeste
La teiera di Russell, chiamata anche teiera celeste, è una metafora ideata dal filosofo Bertrand Russell per confutare l’idea che spetti allo scettico, anziché a chi le propone, l’onere della prova in merito ad affermazioni non falsificabili, in particolare in ambito religioso.
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Laureato in Filosofia alla Statale di Milano, laureato magistrale in Scienze Filosofiche alla Ca’ Foscari di Venezia.